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Agrifood: quanto incidono il clima e la geopolitica sui Paesi trasformatori come l’Italia

L’intersezione tra l’agrifood, il clima e la geopolitica sta riscrivendo il copione dell’agricoltura e dell’alimentazione in Italia. Nel contesto di una crescente richiesta di prodotti come frumento, orzo, soia, carni, oli vegetali, zucchero e frutta a guscio, emerge chiaramente che il nostro Paese è sempre più dipendente dalle importazioni. Il fabbisogno, infatti, supera la produzione nazionale in molte di queste filiere.

Un quadro piuttosto interessante degli ultimi dieci anni quello delineato dal VII Forum Agrifood Monitor di Nomisma-Crif.

Ancora prima dei dati, occorre ricordare quanto clima e geopolitica impattino effettivamente sull’agrifood. Pensiamo ad esempio alla stretta correlazione tra clima e agricoltura, una connessione piuttosto intuitiva se pensiamo che per crescere le coltivazioni hanno necessità di terreno, luce, calore e acqua e che eventuali variazioni di questi equilibri hanno impatti diretti sulla stagione vegetativa e successivamente sul raccolto. Un chiaro esempio è la siccità che ha condizionato il 2022 e il cui fantasma aleggia anche per questo inizio autunno. Ma non solo: le alterazioni della temperatura favoriscono la crescita di piante infestanti e la proliferazione di insetti dannosi compromettendo la produzione agricola.

Allo stesso modo, la situazione geopolitica ha un enorme peso sul settore: la guerra al centro dell’Europa che si sta combattendo in quest’ultimo anno e mezzo non grava più esclusivamente sul settore dell’industria, delle materie prime o della finanza, ma anche su quello della produzione delle derrate alimentari. Per esercitare il proprio potere e condizionare la politica dei Paesi nemici si punta sul settore primario. Autosufficienza alimentare e incremento delle rese produttive diventano quindi per molti Stati un tema strategico, a sottolineare la centralità nell’economia di ogni Paese del settore agricolo.

«C’è un grande problema di autonomia strategica», ha sottolineato Paolo de Castro, eurodeputato e presidente del comitato scientifico di Nomisma.

Nonostante, produzione agricola e i consumi interni rimangano stabili, cresce del 70% l’export italiano, ponendo il nostro Paese al settimo posto nella classifica mondiale degli esportatori nel settore food&beverage. Il problema è che questo vale solo per alcune categorie, come il vino, la frutta e la carne avicola (ci stiamo avvicinando anche all’autosufficienza per il latte). Il punto debole del nostro Paese è una crescente dipendenza dalle materie prime agricole importate: l’Italia, Paese trasformatore, resta molto vulnerabile perché ancora troppo dipendente dalle importazioni.

Tra l’altro, per quanto concerne i Paesi di origine delle materie prime, si sottolinea che il 57% delle nostre importazioni agricole proviene da Paesi dell’Unione Europea (garantendo la sicurezza alimentare nazionale), ma per alcuni prodotti primari è ancora molto forte la dipendenza da regioni extra-comunitarie. Questo vale per soia, olio di girasole e grano duro.

Riducendo i rischi di interruzione nelle catene di approvvigionamento è possibile sicuramente limitare l’impatto sui costi di produzione delle aziende e, conseguentemente, anche sull’aumento dei prezzi dei generi alimentari (problema questo che sta gravando molto sul bilancio familiare dei consumatori italiani negli ultimi mesi).  Allo stesso tempo, è essenziale mantenere stabili i livelli attuali di produzione agricola nazionale, pur considerando le frammentazioni del tessuto produttivo agricolo italiano (il 40% delle aziende agricole italiane coltiva superfici inferiori ai 2 ettari).

Vedendo la situazione agroalimentare a livello globale, nel 2022 i prezzi delle materie prime agricole sono tornati ai livelli precedenti al conflitto russo-ucraino, ma comunque rimangono superiori a quelli di due anni fa. La superficie coltivata a cereali invernali in Ucraina, ad esempio, è diminuita del 40% rispetto alla media del periodo 2017-2021, con un ovvio impatto sulla produzione di mais.

A beneficiare del contesto geopolitico e dei cambiamenti climatici è stato il Brasile che ha registrato un aumento del 230% nelle esportazioni di mais. L’export agroalimentare brasiliano ha superato i 126 miliardi di euro, posizionando il Paese al secondo posto nel ranking mondiale, dopo gli Stati Uniti.

L’inflazione derivata dai cambiamenti del clima e dalla geopolitica ha quindi favorito gli esportatori di materie prime agricole, penalizzando i trasformatori come l’Italia. E se il Brasile ha ottenuto un surplus di 113 miliardi di euro nella bilancia commerciale agroalimentare, l’Italia è tornata in negativo registrando un deficit di 1,4 miliardi di euro.